Il giorno 15 marzo 2024, alcune classi del nostro Istituto hanno incontrato due persone detenute in
articolo 21 (Legge sull’ordinamento penitenziario) che, insieme a un educatore, hanno raccontato la
loro esperienza e risposto ad alcune domande dei ragazzi presenti.
L’incontro è stato introdotto dall’intervento dell’educatore, Dott. Bezzi, che ha chiarito come in
carcere siano presenti:
● persone che sono nate in una famiglia o in un contesto criminale e che a causa del “cattivo
esempio” hanno seguito le orme dei famigliari; questo è il gruppo più numeroso.
● persone che a causa di vite “al limite”, si trovano nella necessità di commettere un reato
● persone che svolgono una vita nella legalità, ma che per un qualsiasi motivo cambiano e
commettono un reato.
L’intervento dell’educatore poi si è concluso con una frase paradossale ma che mi è sembrata
efficace: “Se i carcerati sono considerati “rifiuti della società”, come si fa con i rifiuti urbani,
dovremmo lavorare per ridurli!
A seguito di questo incontro ho chiesto un’intervista a uno dei due testimoni presenti, Vincenzo
Dicuonzo, per sottoporgli alcune domande inerenti alla sua esperienza in Istituto di pena e così ci
siamo re incontrati una mattina attraverso una video-call, durante l’orario scolastico.
In cosa consiste l’articolo 21?
L’articolo 21 (legge 354 del 75) è un regime detentivo meno coercitivo che permette alle persone
ristrette di potersi recare fuori dall’Istituto per svolgere una attività lavorativa, in un arco temporale
circoscritto e attenendosi a delle prescrizioni che vengono dettate ad hoc, per ogni persona detenuta
rispetto al contesto lavorativo in cui è inserita. Le prescrizioni vengono stabilite
dall’amministrazione penitenziaria in accordo con il magistrato di sorveglianza di riferimento della
persona detenuta. È uno dei regimi meno coercitivi perché come nel mio caso permette di uscire dal
carcere di mattina, andare al lavoro, seguire un percorso e poi rientrare in Istituto la sera.
Qual è la maggior difficoltà nell’ essere reinserito socialmente?
In realtà non c’è una causa o un fattore, ma un insieme di fattori. Dipende dal carcere in cui ci si
trova e in questo caso è sempre l’essere umano a fare la differenza; per ogni approccio gestionale
amministrativo c’è una offerta diversa, seppur l’ordinamento penitenziario sancisca le regole guida
attraverso le norme previste per quello che dovrebbe essere l’iter ri-educativo e risocializzante della
persona detenuta. Dipende anche dagli operatori che lavorano nel carcere e con quale volontà e zelo
operano; dipende da quelle che sono le concrete possibilità formative e lavorative che vengono
offerte, dunque è chiaro che se ci si trova in una regione che di per sé ha, già in partenza delle
difficoltà in termini di posti di lavoro, per una persona detenuta diventa più difficile.
Poi non bisogna dimenticare che ci sono diversi regimi di detenzione; quello, forse più
paradossalmente conosciuto, perché ha più risonanza mediatica è il 41 bis, poi ci sono l’alta
sicurezza, la media sicurezza e infine la sicurezza attenuata (o sorveglianza dinamica); a seconda
del regime in cui sei collocato, l’iter è più farraginoso e più macchinoso.
Non dobbiamo dimenticarci tutta la questione della percezione personale e imprenditoriale che sono
connesse tra di loro; intendo dire che le imprese sono fatte da persone, quindi dipende dal datore di
lavoro che ti trovi davanti, più o meno illuminato, che si rende disponibile ad assumere una persona
detenuta all’interno della sua azienda.
Inoltre c’è l’aspetto burocratico; a me personalmente, a causa del mio reato, è stata confiscata la
patente, e quindi c’è la questione dei documenti che ti scadono, li devi rifare e in carcere diventa
tutto più complicato.
La questione lavorativa è molto importante perché una persona viene reinserita socialmente nel
senso che sconta la propria condanna e torna nella società e quello su cui bisogna focalizzare
l’attenzione è il reintegro socio-lavorativo; se una persona non ha reddito per il proprio
sostentamento, quindi non ha un lavoro, non è reintegrato attivamente, non partecipa alla “cosa
comune” e continua a vivere in una condizione di emarginazione sociale.
Tutto è rivolto al reinserimento socio-lavorativo ma i dati ci dicono che ci sono molti deficit, uno di
questi è caratterizzato dalla mancanza di una progettualità sistemica e strutturata che permetta alla
persona di acquisire delle skills a livello interpersonale, perché magari parliamo di un individuo che
non ha mai lavorato nella sua vita o proviene da un contesto sociale caratterizzato dalla attività
criminale, dunque gli manca l’ABC delle capacità relazionali e dei rapporti sani, perciò serve in
primis una formazione più “umanistica”.
Ci sono persone che prima dell’incarcerazione avevano un lavoro, ad esempio commercialista, e
una volta in carcere si ritrovano in difficoltà poiché vengono tolti dall’albo dei revisori contabili e
non possono più esercitare, dunque devono trovare un nuovo lavoro; magari qualcuno ha fatto il
commercialista per tutta la vita e ora non ha le competenze per un altro lavoro, gli devono essere
date dal carcere, una educazione tecnico professionalizzante valida e spendibile effettivamente sul
mercato con una certificazione da un Ente accreditato piuttosto che un “pezzettino di carta” che dice
che hai fatto un corso in presenza di 20 ore, ma che non ti porta a una professionalità valida. Si può
fare una mappatura delle conoscenze pregresse per capire il lavoro più adatto, per esempio
l’elettricista; il carcere dovrebbe agevolarti in questo caso, affinché tu possa acquisire gli strumenti
per professionalizzarti nel lavoro di elettricista fornendoti anche la possibilità di un rapporto con
l’ente che ti accoglierà nel proprio organico come elettricista.
Tutto questo in Italia ad oggi non esiste ancora, dunque può essere che tu hai fatto per 20 anni il
pasticciere entri e ti fanno fare il corso da fotografo e poi ti mandano fuori a fare l’imbianchino; esci
dall’Istituto con una borsa lavoro di 400 / 500 euro per 3 o 6 mesi, che una volta conclusa… può
portarti alla recidiva e quindi al sovraffollamento del carcere.
Come era la tua vita prima del carcere?
Guarda, è una domanda molto generica. Si può sintetizzare un’esistenza in una risposta?
Io poi ho vissuto più vite, quindi dipende da quando ci collochiamo a livello temporale, prima del
carcere. Io ho avuto un percorso personale che è transitato dalla criminalità alla legalità, tutto questo
è avvenuto prima del carcere, perché c’è un dato che forse aiuta a spiegare meglio; io al momento
sto scontando una pena del 2017 per reati commessi nel 2007, però nel mezzo ci sono state altre due
vite e quindi non saprei come risponderti, perché quando io ho commesso reati facevo tutt’altra vita.
Prima dell’arresto, vivevo in Spagna, facevo l’imprenditore posso dire senza troppa presunzione
anche con un discreto successo, quindi la mia era una vita direi… abbastanza ordinaria; una persona
che lavora con delle passioni contestualmente al lavoro che svolgevo. Una delle imprese, creata
con un socio spagnolo, era un’associazione culturale legata alla musica che poi è diventata una delle più importanti in Spagna, quindi una vita normale gioiosa, una “bella vita” la possiamo
definire, nella legalità.
I fatti per i quali invece ho ricevuto una condanna, sono risalenti a quando avevo 26/27 anni, degli
anni in cui diciamo che “non sono stato molto maturo!”.
Come è stata l’esperienza del carcere?
Quello che ti posso dire è uno spaccato del mio vissuto, perché come esperienza umana è sempre
soggettiva; succede come per una malattia, c’è chi reagisce in modo proattivo, assertivo e chi invece
si fa cogliere dallo sconforto e si fa vincere dalla condizione contingente.
Certo l’arresto, la detenzione e la privazione della libertà sono sicuramente le esperienze più
traumatiche che un essere umano possa vivere e sperimentare; con la privazione della libertà
avviene un po’ anche l’annullamento della tua identità, vieni spogliato anche della tua titolarità
identitaria e della tua dignità quindi è una situazione fortemente provante; talvolta alcune persone si
suicidano in carcere proprio perché non reggono questo trauma; è un’esperienza in tutto e per tutto!.
Il carcere è come un microcosmo che, a parte le leggi fisiche, con la libertà e il mondo come lo
conosciamo non ha nulla a che fare; ci sono delle dinamiche anche umane uniche sia tra gli abitanti
e sia rispetto a quanti hanno una posizione decisionale, per non dire di potere di determinate
persone su altre. Ci sono delle dinamiche umane molto peculiari, a proposito ti consiglio un libro di
Viktor Frankl, si intitola “Uno psicologo nei lager”, che anche se in un contesto differente, richiama
un po’ queste dinamiche peculiari, in cui l’essere umano si manifesta in un modo unico.
L’esperienza detentiva come è stata?….Traumatizzante sicuramente! Ma appunto ho cercato di
metabolizzarla nel miglior modo possibile, concentrandomi su ciò che era in mio potere fare e quelli
che erano gli strumenti personali e dell’ambiente a cui attingere per far sì che quel tempo non
divenisse un tempo morto e un’esperienza meramente afflittiva e punitiva, ma trarre anche qualcosa
da questa esperienza così forte, trarre qualche insegnamento.
La nostra scuola dentro il carcere ha avuto un ruolo non tanto per lei, ma in generale?
L’ordinamento penitenziario e il regolamento penitenziario europeo prevedono che la vita in carcere
si discosti il meno possibile dalla vita esterna per mitigare il trauma, per non avere delle ricadute
traumatiche sulla personalità, perché una persona troppo cambiata da questa esperienza può trovare
maggiori difficoltà a tornare nel mondo libero; dunque la scuola è fondamentale, non solo per
quello che la scuola è in sé, ovvero un luogo di apprendimento, ma anche perché porta “dentro il
carcere” uno spaccato, un vissuto di esseri umani liberi. Questa contaminazione tra persone libere
e detenute è considerato il maggior strumento di rieducazione, poiché gli insegnanti prima di essere
docenti sono esseri umani liberi, al di là che di quella che è la valenza educativa e istruttiva del loro
ruolo.