Acculturiamoci

«Joyeux Noël», la Prima guerra mondiale vista dalle trincee

«Quando avremo preso Parigi e tutto sarà finito… Be’, ci inviterà a prendere qualcosa in Rue Babin».
«Non deve sentirsi obbligato a invadere Parigi per venire a bere una cosa da me».

Fa freddo, è sera e le luci dell’albero di Natale danzano sul muro. Una tazza di tè o cioccolata e una copertina calda sono ottime per seguire un vecchio film ambientato a dicembre. I regali sono accatastati vicino a noi, ai piedi del divano, in attesa di essere incartati. Scena idilliaca o pura verità? Per noi, la situazione descritta potrebbe essere quella di un tranquillo pomeriggio di fine autunno, in cui il Natale si affaccia e ci aspetta. Non c’è niente di sbagliato, stonato o fuori posto; peccato che, a chilometri di distanza, ci siano bombe che tentano di distruggere il Paese vicino e persone che scappano dalle persecuzioni.

È uno scenario attuale ma, al contempo, risalente a più di un secolo fa: la Prima guerra mondiale ha portato ad un livello tale di devastazione e paura che si preferisce tacere, anziché parlarne. Non a caso, questo film s’intitola Joyeux Noël. Una verità dimenticata dalla storia. Lo so, lo so: siamo a maggio e non forse è il periodo giusto per parlare di questo lungometraggio. Eppure discutere della guerra non è mai sbagliato, soprattutto se serve a ricordare che un simile scempio non dovrebbe essere più ripetuto.

Francia, dicembre 1914. Al fronte la guerra si fa più sanguinosa di minuto in minuto. I soldati vorrebbero soltanto posare le armi e tornare a casa, in famiglia. Non c’è nulla di più bello e confortante. Ma il conflitto in corso non concede nessuna tregua: le giornate in trincea sono tutte uguali a loro stesse. Sveglia, colazione, qualche tiro di fucile, avanzamento, ripiegata, pausa, qualche altro tiro di fucile e buonanotte, dopo una cena piuttosto frugale. Ma i miracoli esistono, e forse bisogna aspettare la magia del Natale perché si avverino. I tre schieramenti – tedesco, francese e inglese – si fanno guerra ininterrottamente, e non si chiedono chi c’è al di là della loro linea difensiva; l’obiettivo di ogni giornata è quello di tornare dai propri alleati vivi, preferibilmente con tutte le braccia e gambe a posto. Per il resto non esiste spazio.

Pensare ai familiari nel periodo più splendido dell’anno, però, è doveroso. Sarebbe piacevole tornare a casa per un giorno o due, no? Ma non si può, i Paesi nemici sono crudeli e sanguinari, meritano di non esistere, di soccombere. Il motivo è presto detto: è il Regime a volerlo. Farsi domande non ha importanza, conta obbedire. Ed è così che si giunge alla soppressione dell’umanità, all’annullamento del pensiero personale, alla cancellazione della libertà. Siamo tutti schiavi di questo governo, che vuole solo vedere sangue e morte.

Il 24 dicembre dell’anno 1914, però, tutto cambia. O meglio: qualcosa comincia a cambiare, ma nessuno se ne accorge.Gli ufficiali e i soldati britannici decidono di gettare le armi almeno per una notte, iniziando a cantare. Un gesto semplice ma che serba speranza, la speranza d’un domani migliore. La verità è che neanche i soldati sanno per cosa stanno combattendo: le battaglie sono volute dai “grandi” della Terra, che non scendono in campo ma stanno fermi a guardare quanta distruzione riescono a seminare.

La guerra non è un gioco. E i britannici, per una volta, decidono di dimenticare per cosa stanno lottando – ideali vuoti e senza senso -, mettendosi a suonare. Ben presto, le trincee diventano un palcoscenico in cui i tre schieramenti si uniscono e innalzano un canto. Insieme. Come fratelli. Come se la guerra fosse davvero solo un gioco, e per una notte si potessero dimenticare gli scempi vissuti. Avversari a cui si sparava fino a poco fa sono diventate persone. Perché non c’è scritto da nessuna parte che i nostri nemici siano cattivi. E forse, per una notte, va bene unirsi e festeggiare insieme come esseri umani.

Ma il problema è proprio qui: dopo ore passate assieme, in cui i soldati hanno imparato a conoscersi, come si può ricominciare daccapo a far la guerra? Un nemico è solo un nemico, beninteso. Una volta conosciuto, però, s’imparano tante cose date per scontate: anche lui ha una famiglia a cui vuole far ritorno. Anche lui ha dei figli che lo aspettano, una moglie in apprensione, dei gusti, delle preferenze. Anche lui ha un cervello, due braccia, due gambe e un cuore.

Guardalo bene. È una persona, non una macchina. È possibile tornare a combattere dopo tutto ciò che c’è stato? Fingere che sia tutto uguale, che non ci sia una linea tra “prima” e “dopo”? È disumano.

La guerra è così. Illude che sia uno stupido scherzo, che tutto sia concesso e niente sia sbagliato. Eppure no, non si può chiudere gli occhi dinnanzi ad una simile atrocità. Uccidere le persone con cui si stava chiacchierando fino a un’ora fa.

Ecco… il punto è proprio questo. La guerra è crudele, inutile e quant’altro, ma non uccide completamente la ragione dell’uomo. Un conto è uccidere per sopravvivere, un altro è per il piacere di farlo. Sia chiaro: uccidere non è mai bello. Ma i soldati non possono farci nulla. O sparano, o sono loro a ricevere una pallottola nel petto. L’umanità viene a galla quando si ha la possibilità di non sparare in un frangente non pericoloso. Perché difendersi è legittimo, ma scegliere di risparmiare una vita è indice di gran cuore.Se la bontà d’animo esiste anche tra le trincee, forse dovremmo imparare ad avere un occhio più compassionevole con gli altri. Imparare a conoscerli, prima di giudicarli. Essere disponibili. Ed essere gentili. Perché, come si dice sempre, ognuno di noi sta combattendo una battaglia di cui gli altri non sanno nulla.

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