«Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul,
ash nazg thrakatulûk, agh burzum-ishi krimpatul».
Un anello per domarli, un anello per trovarli,
Un anello per ghermirli e nel buio incatenarli.
Alla fatidica domanda «Harry Potter o Tolkien?», mi capita spesso di alzare gli occhi al cielo. So esattamente cosa dire, ma so anche che la mia risposta desterà non poco stupore. Eppure, è inutile tentare di farmi cambiare idea: la Terra di Mezzo è il mio mondo, Tolkien lo scrittore per eccellenza e i personaggi che ha costruito sono diventati casa per me. È come se li conoscessi sul serio, da sempre: c’è Frodo, con il suo sguardo vispo e acuto; Aragorn, che tenta di nascondersi (ma tanto sappiamo tutti chi sia…); Boromir, portamento fiero e regale, non teme niente e nessuno.
Parlandone in questo modo, Il Signore degli Anelli pare una storia come tutte le altre. Invece, è molto di più: in questo romanzo c’è amore, c’è speranza, c’è l’eterna lotta tra il bene e il male, c’è amicizia.
Se mi chiedessero di definire questo libro con una parola, userei «immenso». Al di là del viaggio che un piccolo Hobbit si appresta a compiere, c’è molto di più. Ci siamo noi, con le nostre fragilità, le nostre debolezze e i nostri punti di forza. Perché, in fondo, siamo umani e fallibili. Tolkien è un maestro nel creare personaggi che hanno le stesse caratteristiche di ognuno di noi: siamo buoni, ma facili da corrompere.
Ed ecco perché preferirò sempre Il Signore degli Anelli a Harry Potter: se quest’ultimo è un romanzo di formazione, che conduce i bambini al mondo degli adulti, Il Signore degli Anelli è il capostipite del genere fantasy, che ci catapulta in un mondo corrotto dal male, nel quale però sopravvive il desiderio di far del bene.
Con le sue 1250 pagine, Il Signore degli Anelli è un libro che incute un timore reverenziale. La prima impressione che ebbi quando lo vidi fu «che mattone». Ma, si sa, l’apparenza inganna, ed io me ne accorsi immediatamente. Le sensazioni provate alla seconda o alla terza rilettura sono ancora più amplificate, se possibile.
Perché Il Signore degli Anelli è una storia viva, che risulta fresca e moderna anche se è stata scritta nel secolo scorso. Sa di contemporaneità, dato che tutti gli uomini sono accomunati dalla stessa voglia di far del bene, mentre il male tenta di prendere il sopravvento.
Ed è proprio questo il filo conduttore dei tre volumi in cui si dirama la storia, una storia che ha inizio in un paradiso terrestre: la Contea. Idilliaca, lussureggiante e pressoché sconosciuta, la Contea ospita gli Hobbit, un popolo antico e forte, amante del buon cibo e di ogni comodità. Sembra che il male non possa entrare in queste terre, ma in realtà si è già infiltrato. Dopo la partenza di suo cugino Bilbo, Frodo dovrà abbandonare la sua amata casa per adempiere ad un’impresa disperata: dovrà gettare nelle fiamme del Monte Fato – nelle Terre di Mordor dove vive Sauron, l’Oscuro Signore – l’Unico Anello. Quest’ultimo è stato forgiato dallo stesso Sauron, che ha infuso in esso tutta la sua malvagità e la sua voglia di sottomettere i popoli liberi della Terra di Mezzo. Utilizzarlo per far del bene non sarebbe possibile, perché l’Anello è stato concepito per un unico scopo: distruggere tutto.
Frodo porta con sé un fardello più grande di lui, ma Galadriel, un’elfa che Frodo incontrerà nel suo cammino, sostiene che «Anche la persona più piccola può cambiare il corso del futuro». Ecco la prima lezione di questo libro, che, alla fine, incarna la speranza stessa. Speranza che non si spegnerà mai, neppure quando le tenebre inizieranno a prevaricare.
Ma torniamo a noi. Frodo, per quanto disperato possa essere, non sarà mai solo. Neanche quando penserà di aver perso ogni possibilità di metter fine al regno del male: una Compagnia lo proteggerà. Composta da nove membri, la Compagnia è variegata, leale e sempre unita nonostante le difficoltà.
Perché è tremendamente facile restare insieme quando non ci sono insidie, ma la vera amicizia viene a galla quando arrivano i pericoli. Eppure sbagliare è umano: un grande esempio di redenzione sarà messo in atto all’inizio del Libro Terzo, ed è pressoché impossibile non commuoversi.
Le descrizioni sono il punto forte del libro: Tolkien è stato capace di trascinare a forza il lettore nelle pagine del suo libro, facendolo poi innamorare. Chiudendo gli occhi, infatti, vi sembrerà davvero di camminare in mezzo ai prati di Lorien – la terra degli Elfi -, o di scendere nelle buie miniere di Moria, o di sentire il rumore della pioggia che batte sul tetto della Locanda del Puledro Impennato.
Ed è così che, pian piano, si giunge alla fine. Non aspettatevi un finale scontato, però: Tolkien non conosceva la parola «banale». Non c’è nulla di banale in questo libro, ogni tassello s’incastra ad un altro per dar vita ad uno splendido mosaico.
È legittimo che, alla fine di un’opera così sublime, ci si commuova. Mi capita ogni volta. Eppure Gandalf, mentore e guida della Compagnia, pronuncia parole che mai furono più vere: «Non dirò “non piangete”, perché non tutte le lacrime sono un male».
E se volete dargli torto… be’, sappiate che potrebbe infuriarsi. Gli stregoni sanno essere irascibili e molto, molto imprevedibili.